Pace tra i barbari

L’autografo di questo scritto inedito, firmato e destinato alla stampa (ma la sede di pubblicazione non è stata rintracciata), risale alla primavera del 1945.

PACE TRA I BARBARI

Mai a popolo come a quello tedesco la parola «barbaro» si applicò con tanta sobrietà e mai l’umanità si trovò davanti allo spettacolo cosí sconcertante di una tradizione di alta cultura e di un’invincibile tendenza all’aggressione e al delitto collettivo. È un tema di discussione attraente per tutti gli europei che tanto hanno ricevuto dalla cultura tedesca e tanti orrori hanno subíto da parte del popolo tedesco, un tema che affiorò durante l’altra guerra irrorato di nazionalismo letterario (il genio latino contro quello del nord) e, confuso dai ricordi antiasburgici del Risorgimento, risorse con stimoli ufficiali nel ’34 al tempo dell’uccisione di Dolfuss, divenuto imperiale, romano, mussoliniano (noi eravamo civili ed essi vivevano nelle foreste e nelle paludi!) ed ora giustamente si ripropone da varie parti con tanta piú urgenza e con il bisogno di una spiegazione non retorica e propagandistica.

Già nel ’34 si era accennato alle due Germanie e il sottoscritto, allora giovanissimo studente, reagendo alle condanne truculente di tutta la storia tedesca come antieuropea, inutile alla civiltà europea (e quegli allegri giudici in nome dell’ordine romano dovevano poi col volgere degli eventi politici cambiarsi in esaltatori della missione europea del terzo Reich), pubblicò un articoletto sulla necessità di distinguere la Germania nazista, cresciuta dai fermenti nazionalistici di certo romanticismo fino alla barbarie della croce uncinata, dalla Germania che aveva dato all’Europa due momenti essenziali e rivoluzionari: la Riforma e il Romanticismo. Ché se facile è riannodare brillantemente Lutero a Hitler, Fichte dei Discorsi alla nazione tedesca alla politica imperialistica di Guglielmo II e Hitler, è anche innegabile, in un piano di serena precisazione, che non ugualmente facile è porre accanto l’altezza e l’ampiezza spirituale della lirica religiosa barocca, della poesia e della musica romantica e la miseria della cultura tedesca attuale, la ripugnante funzione razzista che ha avuto finora. E in un certo senso troppo facili ricerche dello spirito tedesco bellicoso e razzista in ogni espressione del passato sono forse ritorte adesioni alla stessa tesi razzista che impesta ogni storia della letteratura, ogni storia dell’arte uscite sotto l’aureo segno dell’imbianchino di Berchtesgaden.

Ma io non voglio tentare qui una storia della cultura tedesca fino al romanticismo, cercare il punto di soluzione e di raccordo fra la Germania di Lessing e Goethe e quella di Nietzsche e George (e del resto quanto diversa anche da noi l’Italia nutrita di facile carduccianesimo e dannunzianesimo da quella a cui ora tutti sentiamo il bisogno di rifarci, ampia, libera, europea, ricca di valori universali ed umani): vorrei solo accennare ad uno stato d’animo che credo comune a tutti quegli uomini di cultura europea che in questo momento di crisi ripensano con nostalgia a quanto hanno ricevuto nella loro formazione, a quella musica, a quella poesia, a quel pensiero tedesco, senza i quali l’Europa del settecento e dell’ottocento appare del tutto incomprensibile. Proprio in questi giorni mi è ritornato tra le mani un opuscolo di Ernst Wiechert (finí in campo di concentramento o si piegò seguendo l’oscuro istinto razziale al nazismo contro cui pure a un certo punto sembrò essersi levato?) uscito nel maggio 1937 («Das Gedichte»: Blätter für die Dichtung, 3 Jahrgang Folge 15/16) con il titolo I compagni fedeli. Sono poche pagine che meriterebbero traduzione, accompagnate da quelle poesie di M. Claudius, Hölderlin, Goethe, Mörike, precedute da una noticina in cui l’autore riporta il motto di Hölderlin «ciò che rimane è opera dei poeti» ed esalta l’essenziale funzione vitale della poesia rinnegando la quale un popolo indica di avvicinarsi alla propria morte. Impostazione tra romantica ed estetistica si dirà, eppure significativa per chi pensi che il nazismo cominciò col rinnegare il suo scrittore piú alto ed europeo (Thomas Mann), bruciò libri di cultura e di poesia (si ricordi la novella dell’esule H.E. Jacob basata sull’orrore del giovane Goethe a veder bruciare nella piazza di Francoforte un libro per mano del boia, simbolo del delitto che i nazisti consumavano contro lo spirito della loro piú alta poesia), cancellò il nome di Heine dal canto di Loreley, falsificò tutta la poesia come espressione della volontà di potenza fino a fare di Hölderlin il precursore del vanitoso e vacuo Weinheber delle odi nazionalsocialiste. Certo nelle pagine di Wiechert si sente il maleodore di una esaltazione morbosa vicina a quel misticismo scadente che percorre le parole piú abbiette del «Volk und Blut», certo si sente che anche Wiechert è figlio di un’epoca misera, sull’orlo di una pazzia, ma insieme si avverte una disperata nostalgia di un mondo sereno ed umano, che viene inevitabilmente a prendere un aspetto troppo separato, troppo beato e quindi alla fine disumano proprio perché la nostalgia parte da una situazione non concreta, da una esperienza troppo diversa, troppo poco semplice, troppo esasperata. E non manca cosí quel “kitsch”, quel malgusto fra troppo raffinato e misticheggiante, psicologico e pesante che dall’epoca guglielmina in poi ha colorito piú o meno tutte le espressioni tedesche.

Ma se il linguaggio è troppo rapito, troppo “divino” tra i cieli di cartone wagneriani e il bronzeo classicismo di George con troppi «sacro» e «tempio» e aggettivi sostantivati secondo la tendenza astratta della lingua tedesca che la pseudocultura nazista ha particolarmente accentuato, in queste pagine troppo tese e supplici, troppo virili e disperate (ché lo spirito tedesco esita spesso fra questi estremi, fra una presunzione vigorosa e un lamento di mendicante) è viva quella smania di pace, di tranquillo possesso, di accordo umano e naturale che si può dire il sogno dello spirito tedesco piú riposato e segreto. Una aspirazione alla pace che affiora nelle liriche religiose barocche di uno Spee, di un Grimmelshausen, di un Gerhardt e che, prima di appannarsi di impuri aliti sensuali in pieno ottocento raggiunge la sua piú limpida altezza all’inizio di quella meravigliosa alba romantica in cui il “popolare” e il “personale” si fondono in espressioni di estrema beatitudine poetica.

Ed è appunto in Matthias Claudius e nel suo «canto della sera» che Wiechert ritrova il primo dei «compagni fedeli», di quei compagni che ci seguono da quando «entrarono per la prima volta nella nostra prima età giovanile fino all’ora della morte». Quelle note semplici, indimenticabili, dotate di musica prima ancora di essere letteralmente trasformate in canto popolare religioso, piene di una suggestione tanto maggiore quanto piú istintivo e decisivo è il cerchio di immagine entro cui si sviluppano, passano bene dal ricordo di Wiechert a noi piú che i pezzi di Goethe, di Hölderlin, di Mörike, in cui una tensione piú “personale” finisce per superare l’impressione divina di un coro intimo oltre ogni macchia, ogni desiderio, ogni rimprovero, ogni protesta.

Der Mond ist aufgegangen

die goldner Sternlein prangen

am Himmel hell und klar …

La luna è sorta, le piccole stelle d’oro, lucenti e chiare brillano in cielo.

Der Wald steht schwarz und schweiget

und aus den Wiesen steiget

der weisse Nebel wunderbar…

Il bosco sta muto e nero, e dai prati sale meravigliosa la nebbia bianca.

Questa placida intuizione di un mondo infantile e divino che l’uomo può ricercare nel suo cuore nei momenti piú tristi della sua vita, queste parole che si posano con un senso di scioglimento serale, con una essenzialità non saporita, non cesellata, questo discorso musicale tutto risolto e pur tutto dimostrato come una tenue predica contadina («Vedete la luna? Se ne vede metà, ma essa è rotonda e bella. Cosí molte cose di cui noi ridiamo perché i nostri occhi non le vedono») costituiscono davvero la traduzione piú profonda di uno spirito tedesco che non ha lasciato traccia nella barbarie presente.

Come il sublime finale della Passione secondo Matteo di Bach («pace dolce, dolce pace») il dolce canto preromantico di Claudius è ben segno oltre che di una civiltà artistica, di una umanità profonda, aperta che meravigliò l’Europa del settecento con un figurino troppo sdolcinato e pittoresco (la Germania idillica e pacifica del Bertola), ma che in realtà sembra tuttora agli europei una scoperta spirituale. Goethe, Hölderlin, Novalis, i grandi romantici poggiarono bene le loro basi su questa tradizione di pace semplice e divina anche se la proiettarono poi in mondi di perfezione classica, in sogni costruiti, in tensione d’infinito sempre pronta a degenerare in eccitazione attivistica e decadente.

Se la stanchezza del «Treiben» dello «Streben» coagulava in appelli alla pace, alla morte, all’infinito, il timbro piú puro che noi vi avvertiamo è pur quello che corrisponde non ad un esaltato bisogno poetico di superuomini, ma proprio all’umano abbandono ad una pace che sorge dal piú elementare accordo con la natura e con gli altri esseri umani.

So legt euch denn, ihr Brüder,

in Gottes Namen wieder

Kalt ist der Abendhauch

Verschon aus, Gott, mit strafen!

und lass uns ruhig schlafen!

und unsern kranken Nachbar auch!

Riposatevi dunque fratelli nel nome del Signore. Freddo è il vento della sera. Dio, risparmia i tuoi castighi e facci dormire in pace! e fa riposare anche il nostro vicino malato!

E anche il nostro vicino ammalato. Quando queste parole nel loro accordo tedesco di conclusione quasi infantile risuonano ai miei orecchi e mi coincidono con tante altre esperienze della musica, della poesia tedesca, penso con tanta maggiore tristezza alla barbarie di quel popolo su cui ora una giusta punizione sta cadendo inesorabile, penso allo strano destino di una tradizione cosí alta ed intima (da essa prendiamo se non i testi piú concreti, certo quelli piú spiritualmente stimolanti) intrecciata e sopraffatta da una tradizione di ferina volontà di conquista. Ora che milioni di uomini sono morti assassinati dai barbari con una crudeltà impensata, quale feroce ironia risentire su labbra tedesche questo inno alla pace e all’amore degli altri: ed anche al nostro vicino ammalato!

Eppure se in qualche cuore tedesco, come nelle pagine (prima della bufera) di Wiechert, risuonassero davvero sincere quelle parole, noi sapremmo che non tutto è perduto della Germania che amammo. E se anche ogni umanità, ogni senso di civiltà fosse scomparso da ogni cuore tedesco, ciò che piú importa è che certi valori, certe espressioni immortali (che in quella tradizione si affermarono in tono altissimo) rimangano vivi ed attivi in mezzo agli altri uomini, a cui il nome della Germania di Hitler significa solo morte, crudeltà, terribile prosa incivile.

O nel paese di Claudius si è verificato davvero quanto scriveva Hölderlin (a Diotima): «ma gli aurei tempi sono passati e nella notte gelata solo la tempesta infuria»?